WHATSAPP GRUPPI GENITORI: a cura dell’Avv. Maria Luisa Missiaggia e l’Avv. Maria Cristina Mazzei
Sempre più frequentemente nascono chat di gruppo tra i genitori di una classe, per velocizzare le comunicazioni. Spesso però la chat di gruppo ben presto perde la sua originaria impostazione e viene utilizzata per gli usi più disparati, dalla ricetta del tiramisù, ai commenti sull’ultima puntata della fiction seguita dalle mamme, alle critiche del look della maestra.
C’è il genitore che si preoccupa ogni mattina di dare il buongiorno, quello che chiede puntualmente i compiti, l’altro che organizza la festa di compleanno o un pomeriggio di shopping.
In una scuola della provincia di Milano, una mamma ha addirittura scritto sul gruppo dei genitori per individuare il bambino con i pidocchi che per la terza volta aveva contagiato suo figlio. In un’altra insinuato dubbi sulle metodologie didattiche utilizzate dall’insegnante e sulla sua preparazione. In una scuola della provincia di Bologna, invece, alcuni genitori hanno offeso e criticato un bambino con difficoltà cognitive.
Alla luce di questi episodi, i presidi hanno manifestato il loro dissenso sostenendo che i gruppi di Whatsapp siano causa di conflitti all’interno delle scuole visto l’utilizzo improprio da parte dei genitori.
Numerose circolari vietano agli insegnanti di prendere parte alle conversazioni, avendo dovuto placare molte liti tra genitori sulla base degli screenshot in loro possesso.
Un uso distorto della chat di gruppo tra genitori può essere causa di problematiche annesse e connesse ai bambini e causare danni d’immagine agli insegnanti ed alla scuola stessa. Se poi il commento che si trova sui social network o su una chat di gruppo Whatsapp è offensivo, la relativa condotta costituisce il reato di diffamazione aggravata (595 c.p.; cfr. sentenza Cassazione penale n. 24431/15).
Il Diritto
Come già scritto, dal punto di vista penale, l’utilizzo di insinuazioni, frasi e/o parole offensive, ingiurie, foto denigratorie che possono influire negativamente sulla reputazione possono integrare gli estremi del reato di diffamazione.
L’art. 595 c.p. prevede che chiunque, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino ad un anno con la multa fino a 1.032 euro.
Circostanze aggravanti di tale reato possono essere l’attribuzione di un fatto determinato (reclusione fino a due anni e multa fino a 2.065 euro) ovvero l’offesa di soggetti appartenenti al Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio (cfr. art. 342 c.p.).
Secondo una consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione in tema di delitti contro l’onore (tra ultime la sentenza della V sez. penale n. 22853 del 2014 e la n. 36602 del 2010), l’elemento psicologico della diffamazione consiste non solo nella consapevolezza di pronunziare o scrivere una fase lesiva dell’altrui reputazione, ma anche nella volontà che la frase denigratoria sia conosciuta da più persone, essendo pertanto necessario che l’autore della diffamazione comunichi con almeno due persone ovvero con una sola per sona, ma con modalità tali che detta notizia venga sicuramente a conoscenza di altri, evento che egli deve rappresentarsi e volere.
E’ del tutto evidente, quindi, che il sistema di messaggistica fornita da Whatsapp sia un mezzo attraverso cui possa realizzarsi la fattispecie descritta.
Dal punto di vista civilistico, è previsto il risarcimento del danno, anche a prescindere del configurarsi nelle fattispecie di reato appena analizzate.
Secondo l’art. 2043 c.c., infatti, qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.
Emblematico il caso avvenuto a Vicenza, con una coppia condannata a pagare 10000 euro per offese in chat all’insegnante e ad una mamma, chat partita dall’apparentemente innocua frase: ”come vi sembra la maestra…”.
Insomma l’invito alla prudenza è quanto mai necessario.